La “nuvola”, il vantaggio competitivo dei sistemi locali, e le metafore della Terra
Alla fine del XVIII secolo, Adam Smith, filosofo liberale e padre dell’economia politica, pubblica La ricchezza delle Nazioni (1776). Nel trattare il tema delle colonie europee, Smith contrappone i limiti delle pratiche monopolistiche delle compagnie delle Indie orientali britannica e olandese alle possibilità offerte dal libero mercato. I monopoli, spiega, sono sempre destinati alla decadenza. Esistono tuttavia eccezioni empiriche a questa regola. Per fare un esempio, Smith accenna a Città del Capo, che allora era ancora un piccolo avamposto coloniale costruito sul promontorio più sud-occidentale del continente africano. A differenza di altre colonie, che avrebbero sofferto se gestite da una società monopolistica, la colonia del Capo, scrive Smith, avrebbe comunque goduto di un surplus, grazie alla sua posizione strategica lungo le rotte commerciali che collegavano le Indie orientali e l’Europa, attraversando l’Oceano Indiano e l’Atlantico. Le navi olandesi avevano infatti un “passaggio obbligatorio” a Città del Capo (Callon, 1984), specialmente durante il loro lungo viaggio di ritorno in Europa, per evitare l’inospitale Costa degli scheletri e il Golfo di Guinea pullulante di pirati.
Per Adam Smith, era la combinazione geografica di centralità e perifericità a dare a Città del Capo tale privilegio economico. La colonia del Capo era abbastanza periferica rispetto all’Europa e alla Batavia per diventare centrale sulla rotta tra il mondo coloniale e quello metropolitano. La sua posizione geografica, tuttavia, era solo un frammento di una storia più complicata sulla quale Smith, forse opportunisticamente, sorvola. Sebbene egli alluda al fatto che gli abitanti originari del Capo fossero stati, per coincidenza, impotenti contro i loro colonizzatori, la possibilità di vendere provviste alle navi era dipesa da molto più di una posizione accidentale sulla mappa del commercio globale. L’agricoltura era stata resa possibile dalla quasi totale estinzione della flora e della fauna del Capo, dal pressoché completo genocidio degli abitanti indigeni, e dall’arrivo di schiavi del sud-est asiatico e di contadini europei semiliberi. Anche come eccezione al liberalismo che Smith sosteneva, quindi, il vantaggio geografico del Capo deve essere messo in relazione a quei flussi globali che Lisa Lowe (2015) ha poeticamente chiamato “intimità dei quattro continenti.”
In the late 18th century, liberal philosopher and father of political economy Adam Smith published The Wealth of Nations (1776). In his discussion of European colonies, Smith contrasts the limits of the monopolistic practices of the British and the Dutch East India companies with the possibilities of free trade. He argues that monopolistic systems are always destined to decay. There are, however, empirical exceptions to this rule. As an example, Smith discusses Cape Town, then a small colonial outpost at the South-Westernmost cape of the African continent. Unlike other colonies, which would decline if run by a monopolistic company, the Cape Colony, Smith writes, would still enjoy a surplus market based on its strategic location to trade routes connecting East India and Europe via the Indian and Atlantic Oceans. Dutch vessels had an ‘obligatory passage point’ in Cape Town (Callon, 1984), especially on their long journey back to Europe, if they wanted to avoid the inhospitable skeleton coast and the pirate-ridden Gulf of Guinea.
For Adam Smith, it was the geographical mix of centrality and peripherality that gave Cape Town its economic privilege. It was peripheral enough from Europe and Batavia to become central on the route between the colonial and the metropolitan worlds. Location was, however, only a part of a more complicated story that Smith, perhaps conveniently, glosses over. Smith did write that the original Cape inhabitants were, incidentally, helpless against the new colonists. Yet, the very possibility of selling provisions to vessels had depended on much more than an accidental position on the map of trade. European agriculture had been made possible by the near-erasure of the Cape flora and fauna, by the near-genocide of indigenous inhabitants, and by the arrival of South-east Asian slaves and indentured European peasants. Even as an exception to the free-trade liberalism that Smith advocated, the Cape’s geographical advantage should thus be read against the global circulations that Lisa Lowe (2015) has poetically called the “intimacies of four continents.”
Città del Capo e la Nuvola
A quasi due secoli e mezzo da La ricchezza delle Nazioni, il vantaggio competitivo geografico del Capo rimane uno dei punti chiave del discorso che Michael, uno steward ventenne, ben vestito e pacato nei modi, ha memorizzato per spiegare perché le imprese dovrebbero avvalersi del cloud – la “nuvola” – della sua azienda. Lo incontro ad Africacom, la più grande fiera tecnologica in Africa, nella primavera australe del 2019, continuando la mia ricerca sull’interfaccia tra tecnocapitalismo e sviluppo in Sudafrica. Africacom riunisce aziende tecnologiche globali e startup africane emergenti sotto lo stesso tetto sfavillante del nuovissimo centro congressi di Città del Capo, recentemente ampliato. Ogni anno, tra gli espositori di Africacom, si possono avvistare capi di stato africani e vari altri ministri vagare tra droni volanti, pali Wi-Fi intelligenti, server a energia solare ecc.
Michael sta in piedi accanto a un manifesto promozionale con sopra stampata una mappa del continente africano, segnato da punti (futuri data center costruiti dalla sua azienda) e linee (un futuro cavo sottomarino di Internet destinato ad approdare a Città del Capo). “I cavi sotterranei sono più difficili da costruire e meno facili da gestire”, mi dice, per poi continuare a illustrare i vincoli fisici e geopolitici della connettività terrestre. Nella sua spiegazione, cosi come nella descrizione di Adam Smith del mercantilismo olandese, la rete sottomarina di Internet ha un giro di boa obbligatorio, a metà strada tra Africa orientale e Occidentale, attorno al Capo di Buona Speranza. Per questo motivo, diversi cavi africani sono destinati ad approdare a Città del Capo, generando un aumento esponenziale dell’ampiezza di banda di connessione nella città, nel prossimo futuro. “Più ampia la banda, più data center costruiamo, meno latenza nelle connessioni”, continua Michael, il cui discorso imparato a memoria è chiaramente costruito per far impressione su potenziali clienti nel campo della delocalizzazione dei servizi – il cosiddetto business process offshoring (BPO). Proprio come la rete sottomarina di Internet ha molto a che fare con più antiche infrastrutture di comunicazione coloniali, e non è soltanto un accidente geografico (Starosielski, 2015), il settore BPO a Città del Capo offre un’altra genealogia del vantaggio competitivo, similmente imbricata nel passato coloniale del continente africano.
Cape Town and the Cloud
Almost 250 years after The Wealth of Nations, the Cape’s geographical advantage was still one of the key talking points of the pitch that Michael, a twenty-something, smartly dressed, soft-spoken steward, had memorized to explain why companies should avail themselves of his firm’s cloud computing services. I met him at Africacom, the largest technology fair in Africa, in the austral spring of 2019, while conducting research on the interface between technocapitalism and development expertise in South Africa. Africacom gathers global tech companies and emerging African startups under the same roof of Cape Town’s shiny, newly expanded convention centre. Every year, between the stalls of Africacom, African leaders and communication ministers can be spotted roaming among flying drones, smart Wi-Fi poles, solar-powered servers etc.
Michael was standing beside a banner with a map of the continent, showcasing dots (future data centres built by his company) and lines (a future undersea internet cable shoring in Cape Town). “Underground cables are more difficult to build and less easy to manage”, he told me, explaining the physical and geopolitical constraints of land connectivity. In his account, as in Adam Smith’s description of Dutch mercantilism, the Internet’s undersea network had an obligatory halfway turn around the Cape of Good Hope. For this reason, several African cables are poised to shore in Cape Town, generating an exponential bandwidth increase for the city in the near future. “More bandwidth, more data centres, less latency,” Michael continued, his selling points clearly designed to impress potential clients in the field of business process offshoring (BPO). Just as the undersea network has more to do with older colonial communication infrastructures more than accidental geographies (Starosielski, 2015), the BPO sector in Cape Town yields another genealogy of advantage that is similarly imbricated in the continent’s colonial past.
Da tempo, il BPO è una pratica di riduzione dei costi di aziende occidentali che delocalizzano parte dei loro servizi in paesi “in via di sviluppo”, dove il costo del lavoro è inferiore. A Città del Capo, i funzionari della città fecero del BPO una delle politiche di sviluppo chiave della fine degli anni ’90 e dei primi anni 2000, cercando di attrarre investimenti nel settore. L’idea alla base del sostegno del governo al BPO era che questa industria avrebbe creato immediatamente un elevato numero di posti di lavoro dignitosi, sebbene non qualificati – in un paese che disperatamente vedeva nella creazione di lavoro un rimedio a tutti suoi mali (Barchiesi, 2011). Allo stesso tempo, il BPO avrebbe creato possibilità per lavoratori più qualificati e imprenditoriali di sperimentare con le tecnologie del boom delle dot-com. Infatti, come ho raccontato altrove (2020), l’alleanza del settore BPO con i primi pionieri africani di Internet, con i cosiddetti “argonauti” tornati dalla Silicon Valley (Saxenian, 2007), e con il governo locale, costituisce uno dei “racconti del vantaggio competitivo del sistema locale”. Nella fattispecie, questo racconto spiega come Città del Capo sia emersa dalla fine degli anni 2000 come principale hub digitale in Africa: il “Silicon Cape” del continente.
Nel tentativo di promuovere Città del Capo come destinazione BPO sul mercato internazionale furono utilizzate come esca attrattiva due delle eredità coloniali più visibili nella città: il suo storico multilinguismo, rappresentato dalla diffusione di almeno quattro lingue europee, e la presenza di una facoltà di ingegneria di prim’ordine, alla University of Cape Town (UCT). Arroccata sul pendio della vetta del Diavolo, e fondata dallo schiavista e magnate minerario Cecil Rhodes, l’università vantava un invidiabile programma di ingegneria informatica. Secondo un celebre aneddoto, questo fatto fu anche nel discorso che Chris Pinkham, allora capo del settore engineering di Amazon, fece a Jeff Bezos con la richiesta di trasferire un gruppo di sviluppatori nella città. Altri membri del team erano, come Pinkham, anch’essi ex-studenti di UCT, incluso Willem van Biljon, il quale aveva partecipato alla creazione di Mosaic, il primo motore di ricerca web ad avere ampio successo commerciale. Secondo tale aneddoto, Bezos accettò quindi di creare un centro di ricerca Amazon a Città del Capo. Lì, nel 2006, il team locale di sviluppatori finì con il congegnare l’Elastic Computing Cloud 2 (EC2), l’architettura software che costituisce lo scheletro algoritmico del cloud di Amazon (AWS).
Non sorprende, quindi, che il primo nodo regionale della nuvola africana AWS sia stato attivato da Amazon proprio a Città del Capo: un gruppo di data center interconnessi che sono entrati in funzione all’inizio del 2020. L’accensione di questi data center, sebbene adombrata dallo scoppio di una pandemia globale che ha avuto nella città il suo primo focolaio africano, non solo ha segnato l’ingresso dell’intero continente nella nuvola di Amazon, ma ha anche marcato l’evoluzione del settore BPO locale, sempre più ricco di aziende che necessitano di sofisticati servizi di remote computing.
In un certo senso, il lancio del nodo regionale AWS a Città del Capo e, un anno prima, l’arrivo del cloud Azure di Microsoft, rappresentano il culmine di una battaglia che da tempo l’industria tecnologica locale aveva ingaggiato contro il monopolio statale delle telecomunicazioni, sin dalla transizione dall’apartheid alla democrazia, facendo pressioni sia per la liberalizzazione della banda larga sia per investimenti in infrastrutture digitali. L’arrivo di queste “nuvole” ha fatto sì che la città, con i suoi data center e cavi sottomarini, sia diventata un nodo geografico riconoscibile nella “megastruttura” informatica dello stack (Bratton 2016). Tale megastruttura è un’eredità del sistema tecnologico globale che ai tempi di Adam Smith sosteneva il mercantilismo olandese e britannico. Anche se navi e chinino sono stati sostituiti da cavi in fibra ottica e EC2, la battaglia tra monopoli e libero mercato ancora incombe.
La domanda di servizi cloud veloci e affidabili nella città, infatti, è ancorata a meccanismi ben consolidati del capitale di rischio (almeno fino all’arrivo del Covid-19), il quale funziona sia attraverso meccanismi concorrenziali sia attraverso tentativi di monopolizzazione. I dati economici aggregati mostrano che la fetta più larga di investimenti ad alto rischio diretti alle startup africane viene effettivamente convogliata attraverso Città del Capo, dove programmi di accelerazione pan-africani fanno scouting di imprenditori tecnologici in tutta l’Africa, e li portano davanti a possibili investitori. Persino la Banca Mondiale, con la sua iniziativa AfricaXL, organizza un concorso per innovatori africani e li trasferisce a Città del Capo. Grazie al settore finanziario locale, specializzato in finanza di venture ed equity, le più promettenti startup africane ricevono quindi formazione e capitale per affermarsi nei loro paesi d’origine. In modo ancora più fondamentale, queste startup ricevono anche il loro primo accesso gratuito ai servizi della nuvola. Nello sponsorizzare questi programmi di accelerazione, Microsoft e Amazon architettano la loro futura base di utenti della nuvola africana. Vagando tra gli espositori di Africacom, alla fine del 2019, ho incontrato molte di queste imprese appena nate. Il modello di profitto della nuvola dipende da loro. Non solo queste startup richiederanno sempre più spazio nella nuvola, al crescere delle loro attività, ma apriranno la nuvola e il BPO a settori dell’economia africana ancora inesplorati. Se questi piccoli imprenditori competono per ottenere un investimento iniziale nelle loro startup, società globali come Microsoft e Amazon cercano invece di creare nuovi monopoli, nuovi “passaggi obbligatori” per le economie informali che ancora sfuggono alle loro nuvole.
BPO is a long-existing, cost-cutting practice of companies relocating part of their ‘immaterial’ operations in ‘developing’ countries where labour is cheaper. In Cape Town, city officials made BPO one of the key developmental policies of the late 90s and early 2000s. The idea behind government supporting BPO was that it would at once create decent-paying, unskilled jobs — in a country that desperately saw job creation as a remedy to its ills (Barchiesi, 2011) — and generate possibilities for a more skilled, entrepreneurial workforce to experiment with dot-com-boom technologies. In fact, as I have narrated elsewhere (2020), the alliance of the BPO sector, early internet pioneers, “argonauts” (Saxenian, 2007), and local government constitutes one of the “tales of regional advantage” explaining how Cape Town emerged as Africa’s leading digital hub: its Silicon Cape.
As this coalition of actors sought to promote Cape Town as a BPO destination, they used two of its most visible colonial legacies as lure: its historic multilingualism, spanning at least four imperial languages, and the presence of a top-notch engineering university, the University of Cape Town (UCT). Perched on the steep slopes of the Devil’s peak and founded by slave-owner, mining magnate and colonialist Cecil Rhodes, the university had a cutting-edge software engineering program. Anecdotally, this was the same pitch that Chris Pinkham, then head of engineering at Amazon, presented to Jeff Bezos with the request to lead a team of developers in the city. Other members of the team included other UCT alumni, such as Willem van Biljon, who had co-created Mosaic, the first commercially successful web browser. As the anecdote goes, Bezos agreed to establish a research centre in Cape Town, and in 2006 the local team eventually manufactured Elastic Computing Cloud 2 (EC2), the basic architecture behind Amazon’s Cloud services (AWS).
It is not a surprise, then, that the first regional node for Africa’s AWS Cloud computing was launched by Amazon in Cape Town — a set of interconnected data centres that went live early in 2020. The event, shadowed by the outbreak of a global pandemic that had in the city its first African hotspot, did not only mark the entrance of the entire continent into Amazon’s Cloud, but also signalled the evolution of the local BPO sector, increasingly formed of companies requiring sophisticated remote computing services.
In a way, the launch of Africa’s AWS regional node and, a year earlier, the arrival of Microsoft’s Azure Cloud were the culmination of a battle that the local tech scene had waged against the state telecom monopoly since the transition from apartheid to democracy, lobbying for both liberalization of the bandwidth and investments in hard infrastructure. The arrival of these Clouds meant that the city, with its data centres and undersea cables, had now become a geographic node in the global computing “megastructure” of the stack (Bratton, 2016). The Cloud’s megastructure is a legacy of the global technological landscape that underpinned Dutch and British mercantilism in Adam Smith’s time. Even though ships and quinine have been replaced by fibre optic cables and EC2, questions of monopoly versus free markets still loom large.
In fact, demand for fast, reliable Cloud services in the city is pegged to a well-established (at least before Covid-19) pipeline of venture capital that functions through both competition and monopolization. Business metrics show that the largest slice of high-risk investments directed to African startups is indeed channelled through Cape Town, where dedicated pan-African acceleration programs scout tech entrepreneurs across Africa and connect them with investors. Even the World Bank, with its AfricaXL initiative, runs a competition for African innovators, and brings them to Cape Town. Thanks to the local financial sector, specialized in venture and equity finance, promising African startups receive expert training and seed capital to scale up in their home countries. More importantly, they also receive their first in-kind access to the Cloud’s services. By co-sponsoring these acceleration programs, Microsoft and Amazon engineer their future Cloud user base across Africa. As I wandered through the stalls of Africacom, in late 2019, I met several of these nascent companies. The Cloud’s business model needs them. Not only will these startups require more and more Cloud space as their businesses grow, they will also expand remote computing and BPO to sectors of the economy that are still beyond their reach. While entrepreneurs compete for scarce early-stage capital, global corporations like Microsoft and Amazon try to create new obligatory passage points for the untapped informal economies that still escape their Clouds.
Coda
In Metafore della Terra (1985), il geografo italiano Beppe Dematteis sostiene che, come per la conoscenza cartografica, anche le metafore della geografia sono uno strumento di potere (possibilmente imperiale e coloniale). Onnipresenti nel modo in cui il mondo viene appreso e spiegato, all’interfaccia tra il letterario e lo spaziale, le metafore della geografia celano i sistemi di potere, spesso iniqui, che soggiacciono ai loro significati. In breve, per Dematteis, le spiegazioni causali basate sulla posizione geografica dei luoghi sono sempre verità parziali.
La nuvola, in quanto metafora geografica, cattura sia la logistica sia la logica dei sistemi informatici globali contemporanei (Amoore, 2018). Nonostante i tentativi di mapparla, tuttavia, rimane opaca (Mattern, 2016). Annebbia le lunghe storie coloniali del vantaggio competitivo dei sistemi locali, cioè l’accumulo di possibilità infrastrutturali e imprenditoriali in luoghi specifici. Adam Smith usava la seconda – la posizione accidentale sulla mappa del mondo – per spiegare la prima – la fortuna del vantaggio competitivo. Il mio interlocutore Michael faceva lo stesso, parlando del passaggio obbligatorio dell’infrastruttura della nuvola a Città del Capo. Come suggerisce Dematteis, dobbiamo invece leggere controcorrente, contro la grana storica di queste spiegazioni causali del vantaggio competitivo come accidente geografico, compreso quello della nuvola globale, per fare i conti con la violenza “dell’affermazione e dell’oblio” (Lowe, 2015, p.41) che le metafore della terra custodiscono silenziosamente.
Conclusion
In Metafore della Terra (Metaphors of the Earth), Italian geographer Beppe Dematteis (1985) argued that, like cartographic knowledge, the metaphors of geography are also instruments of imperial and colonial power. Ubiquitous in the ways in which the world is learnt and explained, at the interface of the literary and the spatial, the metaphors of geography hide the unequal systems of power underpinning their meanings. In short, for Dematteis, causal explanations based on the geography of location are always partial truths.
The Cloud, as a geographical metaphor, captures both the locations and the logics of global computing systems (Amoore, 2018). Despite attempts at mapping it, the Cloud remains opaque (Mattern, 2016). It befogs the longer colonial histories of geographical advantage, that is, the accumulation of infrastructural and entrepreneurial possibilities in specific locations. Adam Smith used the latter — location — to explain the former — the fortune of economic surplus. My interlocutor Michael did the same, speaking of the Cloud’s halfway house in Cape Town. As Dematteis suggests, we need to read against the historical grain of these metaphors of locational advantage, including those of the Cloud, to reckon with the violence of “affirmation and forgetting” (Lowe, 2015, p.41) that they silently carry with them.
References
Amoore, L. (2018). Cloud geographies: Computing, data, sovereignty. Progress in Human Geography, 42(1), 4-24.
Barchiesi, F. (2011). Precarious liberation: Workers, the state, and contested social citizenship in postapartheid South Africa. Suny Press.
Bratton, B. H. (2016). The stack: On software and sovereignty. MIT press.
Callon, M. (1984). Some elements of a sociology of translation: domestication of the scallops and the fishermen of St Brieuc Bay. The sociological review, 32(1), 196-233.
Dematteis, G. (1985). Le metafore della terra: la geografia umana tra mito e scienza. Feltrinelli.
Lowe, L. (2015). The intimacies of four continents. Duke University Press.
Mattern, S. (2016). Cloud and Field. Places Journal, August 2016.
Pollio, A. (2020) Making the silicon cape of Africa: Tales, theories and the narration of startup urbanism. Urban Studies, 57(13), 2715-2732.
Saxenian, A. (2007). The new argonauts: Regional advantage in a global economy. Harvard University Press.
Smith, A. (1776 [2007]). An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations. Metalibri.
Starosielski, N. (2015). The undersea network. Duke University Press.
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Il Capo delle tempeste (Capo di Buona Speranza)/Cape of Storms (Cape of Good Hope). Photo by Lecia Neil. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Cape_Of_Storms_(221013089).jpeg [retrieved 22/06/2017]
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